THAILANDIA # 3 - Diario di una meditatrice curiosa

Continuavo a rimandare la partenza per il ritiro di meditazione al Wat Pa Tam Wua per paura di morire di fame e di noia. Di fame perché i monaci dopo le 12 non possono mangiare nulla di solido e quindi nemmeno noi. Di noia perché il mio corpo si annoia a rimanere troppo tempo immobilizzato a meditare, non ce la fa proprio! Inoltre, c’erano ancora tanti, tantissimi posti in Thailandia che non avevo fatto in tempo a visitare e poi avevo molto, moltissimo lavoro da portare avanti per Very Blooming Pilates che non era mai il momento giusto per partire, siamo tutto d’accordo, vero?

Finalmente mi sono decisa. Cinque ore di minivan scarcassato seduta all’ultimissimo posto dietro perché avevo prenotato tardi, per stradine di montagna piene di buche e guida spericolata alla thailandese.

Il senso di nausea e stomaco “rivoltato” hanno iniziato a farsi sentire già dal taxi per arrivare alla stazione dei pullman. Sono pronta, fate di me quel che volete!

Ho scelto questo forest monastery nel nord della Thailandia, tra Pai e Mae Hong Son, perché mi trovavo già da quelle parti, ma soprattutto perché è completamente immerso nelle montagne, non c’è bisogno di prenotare e le sue regole sono elastiche, quindi avrei potuto tenere un diario, leggere i libri della biblioteca e il silenzio è opzionale.

Sono arrivata pensando di rimanere al massimo cinque giorni, invece mi sono trattenuta per il periodo massimo consentito, ossia dieci giorni.

In questo diario riporto il mio vissuto quotidiano e la mia interpretazione della meditazione e del buddhismo, non verità su questi argomenti, ci tengo a precisarlo. Mi scuso, quindi, se risulterò imprecisa su alcuni concetti

Ho diviso il diario in due racconti, questa è la prima parte che va dal giorno 1 al 5.

Buona lettura!

DAY 1

Sono appena arrivata al forest monastery, non riesco ancora a pronunciare il suo nome proprio in maniera consona , Wat Pa Tam Wua, ma già mi piace.
Con mia grande sorpresa la volontaria della reception mi ha assegnato un kuti (bungalow)  di legno scuro tutto per me invece del dormitorio, chissà, magari ha pensato che fossi troppo vecchia per dormire con le altre pischelle. Vedo solo giovani intorno a me. Non so come questo mi faccia sentire.


Comunque, il kuti è spartano ma accogliente e mi ci sento già a casa. Ha un ventilatore e persino le zanzariere, che lusso! Certo, non ti viene voglia di buttarti sul letto con tanta enfasi perché sarebbe come tuffarsi nel cemento (ma pazienza) e non ci sono lenzuola ma copertine di pile. Vabbè dai, a caval donato non si guarda in bocca.

Siamo in piena burning season, c’è un fumo fitto che mi sembra di navigare in una nebbia perpetua. Alcuni scelgono di indossare la mascherina. No dai, la mascherina in montagna, per meditare poi, non ce la faccio, non mi va.

Che poi, tutti danno la colpa ai paesi confinanti per questi fumi derivanti dal bruciare i resti dei raccolti. Pare siano fumi che vengono dal Laos e dal Myanmar perché qui sono vietati, ma in giro ne ho visti un po’ ovunque e non sono ancora mai uscita dalla Thailandia.

Nei giorni scorsi, a Chiang Mai, il cielo era così grigio e denso che sembrava pesare sulla mia testa. L’aria entrava a fatica nei miei polmoni, come se fosse spessa e questo mi turbava alquanto, mi demoralizzava, direi.

D’altronde l’avevo letto su tutti i blog di viaggio, “evitate il nord a marzo e aprile, se non volete rovinare i vostri polmoni per via dell’inquinamento dell’aria dovuto alla stagione dei fumi”. Pazienza, ormai sono qui il mio corpo troverà una soluzione.


Il primo giorno di ritiro alle 16 c’è la riunione per i nuovi arrivati, ma prima bisogna docciarsi e indossare gli abiti bianchi o lilla pallido che il monastero mette a disposizione.
Quanto ci ho messo a scegliere il pantalone e la camicetta adatti a me! Mi sembravano tutti orribili, troppo caldi, di un tessuto sgradevole oppure troppo macchiati. Eppure ce ne sono un’infinità appesi alle stampelle in una specie di serra non distante dal mio alloggio.


Ho trovato due capi niente male, però vestita così mi sento a metà tra un’infermiera e una matta reclusa in manicomio. Mi manca la camicia di forza, ma non è poi così grave, mi piace perdere la mia identità nel lilla.

“Welcome everybody, why are you here?” chiede la volontaria alla reception con il caschetto quadrato e l’aria da monaca sorridente ma severa.

“I’m here to discover the laws of life, quelle insegnate dal Buddha” dico io. 

Ma che risposta è? Mi ha colto di sorpresa. Non ero pronta e mi è uscita questa frase un po’ sentita e po’ da prima della classe che vuole far vedere che sa. Ma sa cosa? E’ stato KK, il monaco del mini ritiro che ce l’ha detto. Il Buddhismo non è una religione, non c'è nessun dio da pregare e il DHARMA (gli insegnamenti) ci insegna la verità sulle leggi della natura e della vita.

Sì va bene, ma io, profondamente, perché sono qui?

Forse per vedere la vita da un’altra prospettiva? Per calmare la mente e liberarmi da pensieri superflui? Per conoscermi meglio? Perché meditare fa fico e posso migliorare anche nel mio lavoro? Per imparare la via del mezzo e non cadere in estremismi?

Ma sì, un mix di tutto ciò credo e comunque ora sono qui e non mi tiro indietro. 

Sono pronta. Mi sento bene in questo posto, a parte gli occhi secchi per il fumo nell’aria, ma che ci vuoi fare?!


DAY 2

Sveglia alle 5 e meditazione in camera o nella Dhamma hall (sala di meditazione) oppure, chi vuole, può andare ad aiutare in cucina.

Io ho scelto una variante.

Alle 5:01 mi sono fiondata sul tappetino per allenarmi un po’ in una sorta di meditazione in movimento. Con  consapevolezza, certo, ma non senza sensi di colpa mi stiracchio, faccio flessioni, squat e addominali. Gioco con il mio corpo. Saltello cercando di non fare troppo rumore e respiro profondamente e infine medito. Una meditazione frettolosa e confusa, ma pur sempre una meditazione.

Non è mai morto nessuno per essere stato senza frutta per qualche giorno, giusto? Ecco, quindi non morirò neanche io. Certo, mangiando riso, zuppa di proteine di soia e patatine alle 7 di mattina chiedo molto al mio corpo, ma credo che sopravviverò. Posso stare tranquilla. Sono flessibile. Non importa se la mattina praticamente non faccio mai colazione e quando ho fame è con la frutta fresca che mi rifocillo. Non importa. Ce la farò.

Certo questa cosa che gli uomini stiano davanti nella Dhamma hall non mi va giù. Che ci siano alloggi separati lo capisco e lo approvo. Che ci siano due file separate al buffet dei pasti chi se ne frega, ma che gli uomini siano davanti a noi sia per la meditazione seduta che per quella camminata mi sembra molto discriminatorio. Ci dovrà pur essere una buona ragione!

Dal punto di vista relazionale è facile mantenere il silenzio. Non c’è molta interazione con gli altri. Meno sforzo, in un certo senso, ma c'è anche meno intrattenimento e distrazione.
Per ora non mi va di votarmi al silenzio totale e spillare alla camicetta il badge “silent”, scelgo però i tavoli "silenziosi" durante i pasti.


Sono quasi le 18, è l’ora dei canti. Si tratta di una specie di litania infinita senza melodia in tre lingue: Pali, la lingua del Buddha, thailandese per i locals e inglese per noi stranieri. E tutti devono cantare tutto per circa quaranta minuti. Alcuni, sicuramente, muovono solo la bocca. Io mi concentro sul suono della mia voce, altrimenti rischio di morire di noia.

I canti non sono preghiere, come pensavo ma consistono in passaggi selezionati dal Tipitaka, la più antica collezione di testi canonici buddhisti pervenutaci integralmente. Includono versi che elencano le qualità del Buddha, Dhamma e Sangha, discorsi che espongono insegnamenti chiave, passaggi di saggia riflessione e versi per irradiare pensieri di gentilezza e per condividere meriti con tutti gli esseri senzienti (loving kindness). Ecco i meriti, questa cosa la devo ancora capire.

Ieri abbiamo iniziato da qui e la meditazione che ne è seguita mi è piaciuta molto, si è creata una bella atmosfera con la luce misteriosa del tramonto e le vibrazioni sonore dei canti stessi, mi sentivo particolarmente ispirata. La fortuna della nuova arrivata..

Ma che bello che tutte le pagode siano prive di muri. Questo spazio senza confini mi permette una maggiore immersione nella natura.


DAY 3

Ho un’incazzatura di fuoco con questo posto. Apparentemente. Questo posto che mi ospita senza chiedermi nulla in cambio e che si dedica a insegnarmi le basi del buddhismo e della meditazione, per il mio bene. Sono incazzata perché non me le insegna come vorrei, perché non si capiscono le istruzioni delle meditazioni, perché mi dà riso e zuppa di verza a colazione e mi fa spaccare le ginocchia durante le offerte ai monaci. E poi, gli insegnamenti del Dhamma, dove sono? Vorrei parlare con un monaco per dirgliene quattro, con pacatezza però. Sono così compassati, non fanno mai un gesto fuori posto. A volte mi sembra che siano esseri semi trasparenti dentro i quali puoi vedere la profondità e la leggerezza della vita.

Tutto a posto, ho trovato la frutta. La vende il negozietto all’entrata del monastero. Costa il doppio, non è tanto buona ed è in una confezione di plastica rigida super inquinante ma è frutta e non ci posso rinunciare.

Uno degli otto passi del Nobile Ottuplice Sentiero è Samma Kammanta ossia “retta azione”. Chissà, l’avrò violato con questo acquisto poco ecosostenibile? Però il negozietto “dei peccatori”, come lo chiamo io, è nella proprietà del monastero quindi… e comunque per me è questione di sopravvivenza… cioè sarei sopravvissuta anche senza frutta, ma male, dunque, non avendo altra scelta si tratta di una “retta azione” secondo il mio modesto e incontrovertibile avviso. Mi sento sollevata. Molto.

Ma quanto mi piace stare lì a beccare gli altri in fallo… no, dai, non è che mi piaccia ma non capisco chi non segue le regole del monastero. Sarò io bacchettona e ossequente?

Sono una che le regole le segue, io! Mi alleno in stanza alle 5 del mattino e poi alle 20:30 prima di andare a dormire, seguo dunque la direttiva che recita: 

“Non praticare yoga dove sei visibile agli altri! Comprendiamo che per molte persone lo yoga è utile nel loro percorso spirituale. Ti chiediamo però di ricordarti che sei in un monastero buddista. Riteniamo inappropriato praticare la posizione del “Bambino Felice” quando si è visibili ai monaci. Non siamo contrari alla pratica dello yoga, ma le pose provocatorie sono una distrazione per gli altri. Per favore fai yoga solo nel tuo kuti, nel dormitorio o in un altro luogo privato.”

Visti da fuori sembriamo dei pazzi, alcuni più di altri, specialmente alle 6 del mattino quando cerchiamo di ripararci dall’aria frizzantina utilizzando strati di fortuna raccattati qua e là.


Questo italiano barbuto e spettinato seduto davanti a me a colazione, avvoltolato nella copertina celeste con le barchette rosa, ne è un perfetto esempio. Una scena veramente degna di nota, tanto che la sto riportando sul mio diario. Lui conciato a quel modo, con lo sguardo perso nel vuoto che mangia al rallentatore, ne sono affascinata.

A proposito di lentezza, mi viene in mente il ritiro con KK in cui tutto quello che facevamo doveva essere lento. “No rush, relax” ci diceva e così, quando eri a tavola e magari ti eri dimenticata la salsa di soia, ci pensavi due volte prima di ritornare al banco del buffet perché ci avresti impiegato cinque minuti con questa storia del "no rush, relax”. Per ovvie ragioni, visto che i bagni erano lontani, dovevi prevedere una mezz’ora prima quando ti sarebbe scappata.

E comunque ho imparato che posso essere lenta e non consapevole e rapida ma consapevole. Una volta, durante la spossante e iper lenta meditazione camminata mi sono sorpresa a mordermi le labbra dalla tensione che la lentezza provocava in me.

Mi fa tenerezza Ajahn, il monaco che guida le sessioni pomeridiane. Dice di meditare dalle 7 alle 8 ore al giorno, vorrebbe raggiungere l’illuminazione, ovviamente. Prima era un architetto. Questa storia dell’illuminazione è una cosa seria, ne parlano tutti i monaci. Chissà se il corpo subisce una reazione chimica durante l’enlightenment e si illumina veramente, tipo aureola che circonda tutto il corpo? Altra domanda: ci si illumina poco prima di morire, oppure questo passaggio può avvenire in qualsiasi momento?

Ajahn ci ha raccontato che ha iniziato a interessarsi alle capacità della mente e a valutare la possibilità di farsi monaco quando ha visto un suo amico far bollire l’acqua nel bicchiere con la sola forza del pensiero. Se lo dice lui, bisogna credergli, non può mica non rispettare uno degli otto precetti del monastero che dice: “Mi impegno ad osservare la regola dell'astinenza dal parlare falso”.


DAY 4

Durante la pratica di movimento di questa mattina sentivo la mia mente irrequieta. Me la prendevo con i monaci, gli psicologi, la PNL, gli insegnanti di crescita personale e sicuramente con qualcun altro che ora non mi viene in mente.

Ho capito che ero ancora piena di rabbia che doveva fuoriuscire come pus da una ferita infetta. Bleah, che schifo, eppure necessario per guarire.

Ho anche pensato che quella rabbia non fosse mia, ma ereditata dalla mia famiglia. Se, vabbè, stavo cercando solo capri espiatori.

“Guardate verso dentro, non verso fuori” ci ha detto Ajahn mimando con la mano una telecamera che rivolge l’obiettivo verso di sé.

Ho deciso di sbrigarmi per andare ad aiutare in cucina. Mi dispiace farmi sempre gli affari miei senza contribuire al Sangha (comunità) e mi sono curiosamente ritrovata a fare a gara con una ragazzetta per sbucciare i cetrioli meglio e più velocemente di lei. Lei non se ne è accorta che volevo vincere.

Aspetta un attimo, vincere cosa?

Menomale che con la mindfulness mi sono abituata ad osservarmi. Questa si chiama “Trance of unworthiness”, ecco di cosa ero in balia. In parole povere, pensi inconsciamente di non valere nulla e quindi fai di tutto per smentire questa sensazione. Certo sbucciare cetrioli con rapidità e classe mi ha fatto guadagnare tanti punti.

A parte gli scherzi, in altri momenti della mia vita avrei fatto finta di non provare questa sensazione autosvalutante, un po’ per ignoranza e un po’ per orgoglio. Oggi, invece, la so riconoscere e osservare con tenerezza. Questo non significa che non ci casco più (vedi la gara del cetriolo), ma non ci sguazzo dentro come facevo prima e reagisco in maniera meno automatica e più consapevole: sono più libera.

Freedom! Viva la libertà da se stesse!

Vabbè, ma alla fine, chi era più brava con i cetrioli, io o la ragazzetta?

Finalmente la meditazione camminata è andata meglio. Mi sono resa conto che i giorni passati la mia mente era troppo focalizzata nell’eseguire bene questa pratica troppo tesa verso la performance e l’essere brava.

“Come va, va!”, ho pensato prima di iniziare la sessione pomeridiana. Mi voglio solo godere l’esperienza e così è stato.

E ritorniamo alla “Trance of unworthiness”. Meno male che ho appena letto “Radical acceptance” di Tara Brach, che mi ha fatto capire benissimo che la mia sindrome da prima della classe altro non è che senso di inadeguatezza mascherato.

Mannaggia alla maestra Marta - pace all’anima sua - che mi ha messo sul piedistallo per tutti i cinque anni delle elementari.

“Glenda, guarda dentro di te, ricordati le parole di Ajahn!”

Ho deciso di rimanere tutto il periodo concesso: 10 giorni.

Partire domani, come previsto, sarebbe troppo presto, non sono andata abbastanza a fondo; ho a malapena iniziato a capire la differenza tra la pratica mattutina Samatha ossia l’allenamento alla concentrazione che vuole trasformare la mente irrequieta in una mente calma e pacifica e la meditazione del pomeriggio, la Vipassana o i2nsight meditation” che, senza voler cambiare nulla, mira a farci acquisire “wisdom”, la saggezza e la consapevolezza delle vere caratteristiche del corpo e della mente.


Ecco, quest’ultimo concetto non mi è per nulla chiaro. 


“Ragazzi, corpo e mente sono separati, non vi dovete confondere” ci diceva Ajahn accoratamente nella lezione di Dhamma e l’ha ripetuto almeno… non so… tipo cinque volte. “Corpo e mente sono separati” e nel ripetere questa affermazione, forse per assicurarsi che capissimo bene il suo inglese talvolta vacillante, poggiava il pugno sinistro sul cuore quando parlava della mente.

Ma no dai, Ajahn, non dire così, ci abbiamo messo secoli a superare la visione meccanicistica della vita e a comprendere l’indissolubile legame tra mente e corpo e tu, ora, smonti quella che per me è una verità assoluta. No please, ma che vuoi dire esattamente?

A pranzo le mezze banane erano già terminate. Le uniche mezze banane che ho visto finora. Ba-na-na. Oddio, quanto mi piacerebbe addentare lentamente la tua polpa dolce e cremosa. M’inebrio del tuo odore e gioisco per la tua consistenza densa e soffice a contatto con la mia bocca accogliente. Vedo i miei denti incisi dentro di te. Il piacere che fa fondere.

Ma sarà per un’altra volta.


DAY 5

Sono le 4:20 e sono sveglia già da un’ora. Ora capisco meglio il senso di questi letti minimalisti: sono contro la pigrizia! Sono talmente duri che non vedi l’ora di alzarti e iniziare a meditare, ed è quello che ho fatto. È stato abbastanza facile concentrarmi sul respiro. Prima prediligevo mettere l’attenzione sul corpo che respira nella sua totalità, ora sto iniziando a trovare più utile focalizzarmi sulla sensazione dell’aria che entra e esce dalle narici, forse perché è un movimento più piccolo e preciso… e mi sembra anche più intimo.


Ma poi, chi l’ha imposto ai monaci di svegliarsi tutti i giorni così presto? Il Buddha in persona?

Da qualche giorno, prima di entrare nel mio bagno privato, busso. Ho scoperto che ci sono così tante creature che vi trovano riparo che non vorrei arrecare loro eccessivo disturbo, quindi busso timidamente per avvertire che sto entrando, poi accendo la luce per confermare il mio ingresso, attendo qualche istante, così per non mettergli fretta e lasciargli il tempo di nascondersi e poi procedo ad entrare. Questo rituale si ripete tutte le volte, specialmente di notte.

Io, già di mio, non avrei mai pensato di togliere la vita a nessuno tanto meno in un monastero in cui la prima direttiva recita: “Assumo il precetto di astenermi dal distruggere creature viventi.”

Che i monaci non siano vegetariani mi sembra una grande incoerenza, non dico insopportabile, ma quasi. Secondo il loro ragionamento, io non posso uccidere una zanzara che mi punge e non mi fa dormire, mentre loro possono nutrirsi di animali non umani purché non siano stati loro ad ucciderli e non abbiano visto, sentito o sospettato che un essere vivente sia stato ucciso specificamente per loro. Proprio così l’ho letto sul libro delle domande e risposte sul buddhismo. Praticamente, se non contribuisci direttamente alla morte di qualcuno non crei del karma negativo.

Mmm, non lo so, questo tema è da approfondire, la cosa non mi convince. Capisco di più il fatto che i monaci, vivendo di offerte da parte del Sangha (comunità), avrebbero difficoltà a scegliere cosa mangiare. Però basterebbe avvertire il Sangha, sbaglio? Esagero? E’ che la questione della sofferenza degli animali mi sta così a cuore che non riesco a essere neutrale. Che in una vita passata io sia stata una mucca da macello vissuta in due metri quadri senza possibilità di movimento, inseminata artificialmente, perennemente attaccata a enormi e violenti tiralatte, derubata della prole sapientemente cresciuta nel mio grembo, costretta con l’inganno al cannibalismo tramite farine derivate da carcasse dei miei simili e riempita di antibiotici?

Non lo so, forse sono solo esagerata io. Anzi è sicuramente così, perché se penso a tutta la sofferenza che gli animali devono subire a causa nostra mi vengono le lacrime agli occhi, lacrimoni direi, come ora che sto scrivendo. Se questo non significa essere esagerati, cos’è… Compassione? Empatia? Estremismo? Senso di appartenenza? Sì, l’ultima cosa che ho scritto. Sono stata sicuramente una mucca maltrattata reincarnata in una non più giovane donna vegana da quasi trent’anni che non vuole mangiare e sfruttare i suoi simili.

Comunque qui al monastero va tutto bene su questo fronte: i due pasti sono vegani. Certo, sugli orari avrei qualcosa da ridire ma mi trattengo (colazione h 7:00 - pranzo h 11:00).


Mi piacerebbe tanto sapere cosa pensano i fautori del pensiero positivo a proposito del buddhismo le cui quattro nobili verità girano tutte intorno alla sofferenza.

Perché tutta questa enfasi sulla sofferenza, forse Buddha soffriva di depressione come Leopardi?

Le prime tre notti a Bangkok sono state dure per via del jet lag, dei rumori provenienti dalla strada, per il freddo dell’aria condizionata o il per caldo e per le zanzare se lasciavo le finestre aperte. La quarta notte, però, ho letto sulla guida della Thailandia che “la vita è sofferenza”, che lo afferma la prima nobile verità del buddhismo e ho pensato: “Allora è tutto a posto, va bene anche così, portiamo pazienza è tutto normale” e ho iniziato a dormire meglio.

A questo punto vorrei indagare meglio sulle quattro nobili verità e ho anche scoperto che la guida non aveva riportato le informazioni in maniera precisa, però mi ha aiutato lo stesso!

  1. la Nobile Verità della Sofferenza

  2. la Nobile Verità dell’Origine della Sofferenza

  3. la Nobile Verità della Cessazione della Sofferenza

  4. la Nobile Verità del Sentiero che conduce alla Cessazione della Sofferenza

Ricordo che una volta, in una sessione di domande e risposte a Santacittarama, un monastero buddhista vicino Roma, un monaco disse: “La sofferenza cessa con la cessazione del desiderio.”

Era la prima volta che ci andavo e non ci sono più tornata, ma cos’è tutta questa demonizzazione del desiderio?



Next
Next

THAILANDIA # 2 - Avventure buddhiste di una viaggiatrice maldestra